Mio caro Marco,
Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d’accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d’un uomo che s’inoltra negli anni ed è vicino a morire di un’idropisia del cuore.
[incipit]
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Non ci sono al mondo persone più volgari dei nostri complici. L’occhiata obliqua dell’oste che mi riserva il vino migliore, e per conseguenza ne priva qualcun altro, bastava già, nei giorni della mia giovinezza, a ispirarmi un profondo disgusto per gli svaghi di Roma. Non mi piace che un essere umano ritenga di conoscer già il mio desiderio, prevederlo, adattarsi meccanicamente a quella che suppone la mia scelta.
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Quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco.
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Tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili o per giovar loro, almeno una volta, è già stato fatto da un greco.
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…gloria, se vogliamo dare questo bel nome appassionato alla nostra smania di sentir parlare di noi.
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Non ch’io disprezzi gli uomini: se lo facessi, non avrei alcun diritto, né alcuna ragione, di adoperarmi a governarli. So bene che sono vanitosi, ignoranti, avidi, irrequieti, capaci quasi di tutto pur di arrivare, pur di farsi valere, anche solo ai propri occhi, o anche soltanto per evitare di soffrire. Lo so bene: sono fatto anch’io come loro.
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Invidio coloro che riusciranno a compiere il giro dei duecentocinquantamila stadi greci calcolati così bene da Eratostene, percorrendo i quali ci si ritroverebbe al punto di partenza. M’immaginavo nell’atto di prendere semplicemente la decisione di continuare a camminare davanti a me, sulla pista che ormai sostituiva le nostre strade. Questa idea mi piaceva… […] Va da sé che era solo un sogno, il più breve di tutti. […] Ciò nonostante, quel sogno mostruoso, che avrebbe fatto fremere i nostri avi, saggiamente confinati nella loro terra del Lazio, io l’ho fatto, e l’averlo avuto solo un istante mi rende diverso da essi per sempre.
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Pochi mesi dopo la grande crisi, ebbi la gioia di veder formarsi nuovamente la fila delle carovane in riva all’Oronte; le oasi si ripopolavano di mercanti che commentavano le notizie alla luce dei bivacchi, e che ogni mattina, insieme alle loro merci, starei per dire caricavano, per trasportarle in paesi sconosciuti, parole, pensieri, costumi intimamente nostri, che poco a poco avrebbero dilagato nel mondo in modo più sicuro che non le legioni in marcia.
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Ciascuno di noi ha più qualità di quel che non si creda, ma solo il successo le mette in luce, forse perché allora ci si aspetta di vederci smettere di esercitarle.
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A ogni sforzo per migliorare la condizione umana si oppone una obbiezione: forse, gli uomini non ne sono degni. Ma mi è facile eluderla: sino a che resterà irrealizzato il sogno di Caligola, e il genere umano tutt’intero non si ridurrà a una sola testa offerta alla scure, ci toccherà tollerarlo, raffrenarlo, volgerlo ai nostri fini; la cosa più vantaggiosa per noi sarà di servirlo. […] E ascoltavo a metà i bene intenzionati i quali affermano che la felicità snerva, che la libertà infiacchisce, che la dolcezza vizia coloro sui quali si esercita. Può darsi: ma, se consideriamo come va il mondo, seguire costoro è come rifiutarsi di nutrire a sufficienza un uomo emaciato, per paura che tra qualche anno gli capiti di diventare pletorico. Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose.
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Non credo che alcun sistema filosofico riuscirà mai a sopprimere la schiavitù: tutt’al più, ne muterà il nome.
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Quella vecchia cieca che dal fondo d’una provincia barbara s’incammina alla volta dell’imperatore è divenuta per me quel ch’era stato in altri tempi lo schiavo di Tarragona: il simbolo delle popolazioni dell’impero che ho governate e servite. La loro immensa fiducia mi compensa di vent’anni di fatiche che in fondo non mi sono dispiaciute.
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Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine.
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Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…
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da Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar
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