UNA STORIA TRISTE

Quella di Tuono Veloce e Cavallo Pazzo è una storia triste. Entrambi erano miei nonni. Avevano combattuto insieme contro altre tribù e contro i soldati degli Stati Uniti. Entrambi amavano la libertà, ma
Tuono Veloce vide che gli Indiani non avevano nessuna possibilità, così disse: “I bianchi sono numerosi come l’erba che cresce nelle praterie. Non possiamo continuare a combattere contro di loro. Dobbiamo lavorare insieme a loro”. Alla fine acconsentì a vivere in una riserva e diventò una guida scout per l’esercito.
Cavallo Pazzo andò per la sua strada. Non voleva arrendersi all’Uomo Bianco. “Uccidetemi se volete”, diceva, “ma almeno morirò libero!”. Si rifiutava di vivere in una riserva.
Poi il Governo mandò Tuono Veloce e alcuni altri, perché conducessero Cavallo Pazzo a Fort Robinson, dicendo che Cavallo Pazzo sarebbe stato al sicuro e che volevano solo un incontro per discutere della pace. Alla fine Tuono Veloce di adoperò per convincerlo, così condussero Cavallo Pazzo al forte. Cavallo Pazzo capì che era un tranello, ma sapeva anche che era arrivata la sua ora. “Il mio popolo ha perso la libertà ormai”, lo sentirono dire. “Come faccio a rimanere libero da solo?”. Era pronto a morire. Aveva pronta il suo canto di morte e sicuramente lo stava cantando nella sua testa quando oltrepassò la soglia di Fort Robinson.
Tuono veloce pensava di fare una buona cosa; pensava di salvare Cavallo Pazzo, ma quando entrarono nel forte i soldati l’afferrarono. Stavano per metterlo in prigione, ma lui cercò il suo coltello, l’unica arma che avesse. Un soldato lo infilzò da dietro con la baionetta, trafiggendogli un rene. Cavallo Pazzo morì, ma morì libero.

Cavallo Pazzo diceva spesso: “Quando morirò, tornerò come tuono e fulmine”. Così ogni volta che ci suono tuoni e fulmini, sentiamo la sua voce. Qualche volta salgo su Bear Butte, la nostra montagna sacra sulle Colline Nere, e lui mi parla dal cielo; la sua voce è il tuono, la sua lingua è il fulmine.

Mio nonno Tuono Veloce non fu più lo stesso dopo che i soldati l’ebbero ingannato uccidendo Cavallo Pazzo. Accadde nel 1877. Egli visse fino al 1914, ma non era più la stessa persona. L’ho conosciuto quando ero bambino. Era un uomo buono, un uomo grande che aiutava tutti. Diventò ricco allevando bestiame. Aveva 707 pony pezzati, perciò gli diedero il marchio “707”. Quello che la gente ricordava meglio, però, era che aveva contribuito a far catturare Cavallo Pazzo e non gli permisero mai di dimenticarlo. La gente non aveva pietà di lui. Ancora oggi non l’hanno perdonato.Qualche volta da bambino uscivo a camminare con lui sulle colline, si sedeva accanto al torrente e scuoteva la testa. “Mi hanno ingannato”, continuava a ripetere. “Mi hanno ingannato! Era una trappola!”.

Non ho mai visto nessuno triste come lui.

(da“Nobile Uomo Rosso” – Il mondo straordinario di un Wisdomkeeper Lakota di Harvey Arden)

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L’ultimo orco di Silvana De Mari

Mentre, alla testa dei Mercenari di Daligar, comandava l’inseguimento del Maledetto Elfo, il Capitano Rankstrail, detto l’Orso, cercò di ricordarsi da quanti anni lo inseguiva.
[incipit]

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L’ultimo dei Moicani

Una caratteristica delle guerre coloniali del Nordamerica, era che ancor prima di poter incontrare il nemico si dovevano affrontare le fatiche e i pericoli della foresta. Una vasta e apparentemente impenetrabile barriera vegetale separava i possedimenti delle contrapposte province francesi e inglesi nemiche.
[incipit]

 

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I fiori blu

da I fiori blu di Raymond Queneau.

Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la sua situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs.
Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I Normanni bevevan calvadòs.

[incipit]

— Dove vuole che la porti, signoria?
— Lontano! Qui il fango è fatto dei nostri fiori.
— … dei nostri fiori blu, lo so. E allora?

Demostene e il Duca d’Auge
(Pagina 4)

Io l’autostop lo faccio solo coi tassì. E’ più caro.

Cidrolin
(Pagina 11)

— Insomma, non ci vuoi andare a sbudellare il MostanserBillah?
— Che si sbudelli per conto suo, sire, è la mia ultima parola.

Il Re e il Duca d’Auge
(Pagina 15)

Uccello che parla verba volant.
Uno dei proverbi d’estesa salacia sorti dal fondo profondo tanto folle quanto clorico della sapienza îldefrancese

(Pagina 24)

I miei sogni rivestono un particolare interesse. […] I miei sogni, li scrivessi, farebbero un romanzo.

Cidrolin
(Pagina 145)

— Potrebbe raccontarmi la storia di qualcun altro…
— Se la raccontassi vorrebbe dire che m’interessa. E se una storia m’interessa, è come se fosse la mia storia.

Cidrolin e Lalice
(Pagina 148)

Una cosa che non esiste non è mica detto che sia una stupidaggine.

Il Duca d’Auge
(Pagina 168)

I due cavalli erano legati fuori, al palo d’un divieto di sosta. I passanti al vederli si trasformavano per qualche istante in curiosi, poi ritornavano alla loro primitiva natura.

(Pagina 255)

Fu allora che si mise a piovere. Piovve per giorni e giorni. C’era tanta nebbia che non si poteva sapere se la chiatta andava avanti o indietro o se restava ferma. Finì per arenarsi in cima ad una torre. I passeggeri sbarcarono, Sten e Stef con qualche sforzo; s’erano ridotti magri e fiacchi da non poterne più, poverini. All’indomani le acque s’erano ritiratene nei letti e ricettacoli consueti e il sole era già alto sull’orizzonte, quando il Duca si svegliò. Si avvicinò ai merli per considerare un momentino la situazione storica. Uno strato di fango ricopriva ancora la terra, ma qua e là piccoli fiori blu stavano già sbocciando.

explicit, senezionar per leggere

 

BELLO, OTTIMA TRADUZIONE
Il mio giudizio complessivo sul romanzo e su Queneau in generale è senz’altro positivo! Sono rimasta invischiata nella staffetta onirica tra Auge e Cidrolin, e sono stata conquistata dalla genialità dello stile.
Grazie anche ovviamente alla splendida traduzione di Calvino.
http://www.naufragio.it/iltempodileggere/12901

16 ottobre 1943

Frasi da 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti.
Il libro contiene due racconti, il primo intitolato appunto “16 ottobre 1943” e il secondo dal titolo “Otto ebrei”.

Fino a poche settimane prima, ogni venerdì sera, all’accendersi della prima stella, si spalancavano tutte grandi le grandi porte della Sinagoga, quelle verso la piazza del Tempio. Perché le grandi porte, invece delle bussole laterali e un po’ recondite come tutte le altre sere? Perché invece degli sparuti candelabri a sette bracci quello sfavillare di tutte quante le luci, che traeva fiamme dagli ori, splendore dagli stucchi – gli stemmi di Davide, i nodi di Salomone, le Trombe del Giubileo – e sontuosi bagliori dal broccato della cortina appesa davanti all’Arca Santa, all’Arca del Patto col Signore? Perché ogni venerdì, all’accendersi della prima stella, si celebrava il ritorno del Sabbato.
[incipit di “16 ottobre 1943”]

Ormai tutta Roma aveva saputo del sopruso tedesco, e se ne era commossa. Guardinghi, come temendo un rifiuto, come intimiditi di venire a offrir dell’oro ai ricchi ebrei, alcuni «ariani» si presentarono. […] Quasi umilmente domandavano se potevano anche loro… se sarebbe stato gradito… Purtroppo non lasciarono i nomi, che si vorrebbero ricordare per i momenti di sfiducia nei propri simili.

(Pagina 11)

Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera né altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che solo quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero, perché molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la scomparsa.

[explicit di “16 ottobre 1943”]

Roma, 24 marzo 1944. Si sta manipolando la cosiddetta «prima lista» per le Fosse Ardeatine. I tedeschi, per conto loro, hanno già prelevato dieci ostaggi.

[incipit di “Otto ebrei”]

Se prima negli ebrei si puniva l’ebreo, oggi al vedere la situazione, non già corretta, ma semplicemente capovolta con sì perfetta simmetria di antitesi, può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l’ebreo.

(Pagina 71)

Ma chi, come gli ebrei, ha sete di libertà, una di quelle seti che tappezzano il palato: chi ha capito come la libertà sia letteralmente una questione di vita o di morte, è pronto a riconoscere che, tra tutte le libertà che compongono la Libertà, è compresa anche la libertà di essere antisemiti.

(Pagina 76)

[Gli ebrei] sono uomini, certo, e amano anche loro la sicurezza, il benessere, magari la felicità. Ma non è vero, non deve essere vero che poi, in compenso, pretendano le vacche troppo grasse. Se non altro, per dignità, per un equo senso della vita, per un loro umano amor fati, amore del rischio e del destino. Né troppo magre, né troppo grasse. Una cosa giusta.

[explicit di “Otto ebrei”]

DENUNCIA, RICORDO, RACCONTO, TRAGEDIA
Toccante, crudele, scarno pur essendo particolareggiato, questo resoconto parla con obiettività e giusto un filo di ironia, denuncia e ricorda, descrive e commuove. Insomma, non trovo proprio un modo migliore per descriverlo se non quei due semplici aggettivi usati da Natalia Ginzburg: breve e splendido.
http://www.naufragio.it/iltempodileggere/11343